– In quegli anni lei era ancora a scuola, giusto?
– No, avevo già smesso. A me la scuola non piaceva. Non che andassi male, ma il latino non mi andava proprio giù. Poi c’era il professore di ginnastica che era un despota, sempre lì a sgridare. Mi dicevo. “Devo fare qualcosa per diventare migliore di quel soggetto lì”. Così quando è passata la legge che spostava l’obbligo scolastico a 14 anni, io ho pensato bene di fare due volte la seconda media. Insomma, gliela faccio breve: ho compiuto 14 anni il 16 giugno, il 12 avevo finito la scuola e il giorno del mio compleanno sono andato a lavorare da mio padre.
– Com’è stato andare “a bottega”, i primi tempi?
– Com’è stato? Diciamo che sono stato accettato come il deficiente di turno. Il commento è stato: “Cretino che ti sei fatto bocciare, dai… metti su le gomme! Scopa per terra! Metti a posto i trucioli!”. Si lavorava duro tutto il santo giorno, fino a sera. C’era chi saldava e aveva il cannello coi tubi, il gasometro con dentro il carburo di silicio per fare il gas (perché eravamo noi che lo facevamo), l’acetilene, l’ossigeno… C’era da chiudere i rubinetti, accertarsi che non restassero aperti la notte e poi c’era da “fare su le gomme”, in modo che i tubi non si torcessero.
– E lei si dava da fare?
– Per forza, altrimenti era una “cagnata” pazzesca!
– Ma suo padre com’era con lei? Al di là dei rimbrotti per la bocciatura, la trattava come figlio in bottega?
– Ah no, assolutamente no! Mi sgridava di continuo in modo che gli altri capissero che non c’erano preferenze. Bisognava fare le cose fatte bene, su questo non si scappava. Mio padre quando si arrabbiava dava dei gran calci ai cestini e urlava “an capí gnínta, av sa fadiga, a gh’iva ragióun mé!”. Però delle grosse arrabbiature non le ho mai viste. Se lui diceva: “Fate così” voleva dire che bisognava fare così. E se c’era qualcosa che non andava, quello che veniva sgridato in mezzo a tutti ero io. Oddio, “tutti”… eravamo poi in undici, allora. Mica tanti.
– Non deve essere stato facile. Come ci rimaneva?
– Come vuole che ci rimanessi? Male, ovvio. Non mi sono mai azzardato a contraddire mio padre davanti agli altri. A casa sì, tante volte le discussioni le facevamo per giustificare le nostre scelte e chiarirci. Se ero io ad avere ragione, mio padre era il primo ad ammetterlo. Pensavo: certo che è dura fare la gavetta! Poi un colpo con Afro Gibellini, un colpo con Giancarlo Guerra, un colpo con Amleto… un bel giorno mi hanno messo a fare il garzone produttivo. Sa come funzionava? Mi davano il pezzo di cartone con la sagoma e io dovevo tagliare la lamiera. Loro, i miei maestri, mi dicevano. “Qui ci va una piega da un centimetro oppure qui e la metti dentro a questa maschera, poi martelli tutt’intorno” e così facevo già i pezzettini che gli altri assemblavano in seguito.
– I suoi maestri?
– Il primo maestro è stato mio padre, maestro di vita e di lavoro. Ci ha educati, mio fratello ed io, con l’esempio. La semplicità, di un uomo eccezionale come mio padre, non è facile da trasmettere.
– E gli altri maestri. Com’erano come insegnanti?
– Ah, tutt’altro che teneri. Qualcuno quando sbagliavo a saldare, mi bruciava i peli delle mani!
– Addirittura?
– Sì, ma ognuno di loro – a suo modo – mi ha aiutato. Certo i metodi erano quelli che erano, dello stile: una scoppola e via.
– Ma a lei sarebbe piaciuto fare il battilastra? O quello era solo un punto di partenza per fare altro?
– Mi piaceva, sì ma avevo in mente altro. Battere la lastra non è difficile, bisogna solo stare attenti a non metterne dove ce n’è già troppa o a toglierne dove manca. Gli strumenti migliori sono l’occhio e la sensibilità dell’intuito, l’udito per sentire la martellata se è solida o un tic, tic, tic. Sa, c’è gente che dà molte martellate di troppo, che non servono a nulla. La martellata deve avere un senso: il martello non va accarezzato, ma dominato… Come le dicevo, però, io avevo in testa altro. Quello che volevo davvero, io, era fare una macchina.
Giocare con le macchinine… da che mondo è mondo, tutti i bambini hanno iniziato così: con l’automobile vista un po’ come giocattolo, un po’ come primo (rudimentale) tesoro. Ecco perché desiderare di fare una macchina significa moltissimo. Come una sorta di soglia, una porta aperta sull’età adulta.
La domanda successiva mi sorge spontanea.
– Qual è stata la prima auto che ha fatto?
– Bè, ho cominciato che avevo 14 anni e facevamo il California a passo lungo e il Tour de France. Ho fatto le portiere del California con Afro Gibellini, insieme a Ferrari Franco ero addetto a fare le nicchie, gli sportellini, le prese d’ aria e la bocca del GTO, poi ho lavorato con Giancarlo Guerra e ho imparato a fare le ossature portanti, le scocche… lui sapeva fare tutto! Ho imparato a fare le cornici parabrezza che erano fabbricate in tre lamiere sagomate già tagliate a sviluppo adattabile, perché noi piegavamo la lamiera che era già in sagoma e quando era finita aveva la forma a cono. Tutti i vari sviluppi li ricavavamo col cartoncino, con un primo pezzo fatto, si adattava alla maschera s’impilava poi lo sviluppo si rimetteva sulle lastre di lamiera e venivano tagliati i pezzi tutti uguali con lo sviluppo giusto, in modo che piegandolo andava al suo posto spontaneamente, senza bisogno di correzioni, di martellate o di saldature in più. La Fiat già stampava quel tipo di lamiere, però per fare una cornice buttava via un foglio intero, di quelli grandi. Noi invece, tagliando gli sviluppi, li mettevamo uno dentro all’altro per cui c’era meno scarto. Di contro, bisogna dire però che i pezzi erano tutti tagliati a mano: il prodotto, quindi, costava di più di manodopera, ma il risparmio in termini di materiali era notevole.
– A occhio e croce siamo arrivati agli anni Sessanta: l’età dell’oro, per la carrozzeria Scaglietti. Chissà quanti personaggi sono passati da voi…
– Eh sì, negli anni Sessanta ne ho visti di personaggi: gente fortunata. Prenda Giannino Marzotto, per esempio, una punta di diamante nel mondo delle tessiture. Doveva vederlo, Marzotto, quando veniva: era entusiasta di veder martellare la lamiera, aveva proprio la passione per le auto. Un altro personaggio che ricordo particolarmente era Greg Garrison, produttore e direttore televisivo, amico di Frank Sinatra, di Sammy Davis junior, di Dean Martin… Mi piaceva perché riusciva a tenere insieme l’artista, il petroliere, il politico. Mi ammaliava! Si figuri che a Montecarlo prendeva un attico e invitava tutti gli amici e c’era davvero gente di tutti i ceti sociali. Trattava con tutti, lui. Riusciva a piazzare roba a tutti e prendeva la sua percentuale. Era un mago trasformista, e faceva tanti ma proprio tanti soldi. Aveva qualcosa come nove, dieci Ferrari con finiture personalizzate e campava sul lavoro degli altri. Per me era un camaleonte, era questo che incuriosiva. Tra me e me dicevo: riuscissi io a barcamenarmi in mezzo a re, principi, miliardari, politici, attori!
Mi viene in mente quando Sergio ha fatto la macchina a Ippocrate per la Mille Miglia, un Tour de France.
– Ma Ippocrate si chiamava davvero così? Sa tanto di nome d’arte.
– In realtà era lo pseudonimo: lo usava per non farsi riconoscere dalla moglie che non gli avrebbe dato il permesso di andare a correre. Questo gentleman driver, il proprietario delle cartiere del Timavo di Trieste, si iscriveva apposta con il nome d’arte… vettura tal dei tali, senza mettere il telaio e il numero di targa, così anche se sua moglie buttava l’occhio sul giornale “mo guerda tè st’imbezél” ed invece “l’era so marí”! Lei leggeva Ippocrate e non gli faceva problemi. Questi gentlemen sono stati i primi sponsor di mio padre. Il conte Marzotto prima di andare da Enzo Ferrari si fermava da mio padre “Sergio se vado su a ordinare una macchina tu riesci a farmela?”. C’era un rapporto amichevole e umano.
– Qualche nome?
– Bè, c’erano i cantanti: Mario Del Monaco che ha voluto la personalizzazione, le sigle in oro incastonate nei pomelli d’acciaio, fatti a mano. Del Monaco, mi piaceva. L’ho conosciuto perché veniva anche qui da noi, papà gli ha portato il California a casa. Si figuri che abitava proprio vicino a Tito Schipa. A proposito, ma lo sa che si chiamavano cantando da un balcone all’altro? Sì, proprio così! Quando mio padre gli ha portato il California, Del Monaco ha chiamato Schipa con un acuto per invitarlo a venire a vedere la macchina nuova.
– Altri personaggi di spicco?
– Quando è venuto il Re Leopoldo con la moglie io l’ho visto, sa? La regina era bellissima. Io ero affascinato anche dalla spontaneità di mio padre, che stava con tutti quei personaggi. Lui era sempre Sergio, con chiunque, e questo non è da tutti.
Oscar ride.
– Quella dei colombi gliela devo raccontare!
– Come, quella dei colombi?
– Quando il Re del Belgio è venuto a provare il California con la regina, mio padre è stato molto cordiale “Venga signora, venga che le faccio provare il sedile. Ecco, questa è la sua macchina”. Poi si sono messi a chiacchierare e parlando della famiglia, mio padre ha raccontato che a mio fratello piacevamo molto i piccioni viaggiatori. Ai tempi avevamo una piccola colombaia in società con un colombofilo che aveva dei colombi da corsa per le gare lunghe e corte. Il Re, allora, ha mandato il suo autista con una gabbietta con dentro due piccioni e li ha fatti recapitare in officina. Quando mio papà ha visto la gabbia ha detto “Oh come sono belli grassottelli! Ora li diamo alla Carola per farli ripieni!” Noi tutti a ridere e l’autista, tutto allarmato: “Ma Scaglietti questi sono da corsa! Non sono da mangiare, sono i corridori del Re!”.
– E i colombi che fine hanno fatto?
– Mio fratello e il suo amico colombofilo li hanno fatti accoppiare con i nostri e quando mettevamo in campo i piccioni ibridi, quelli incrociati con quelli “reali”, arrivavano sempre primi.
– Un giorno abbiamo ricevuto una chiamata. “Dobbiamo andare a correre a Mont Ventoux, ci sono quaranta giorni di tempo, organizzatevi”. Ci siamo messi subito sotto a mettere in piedi la squadra per costruire la Ferrari 206 Dino Sport. Abbiamo lavorato giorno e notte per questo prototipo, più piccolo e più leggero rispetto ai P1, 2, 3, con il motore della Dino. Il ristorante Cavallino aveva l’incarico di portarci da mangiare ogni cinque ore: un primo, un secondo e un contorno. La squadra era di sette persone, io ero l’ottavo: facevo da battilastra. Ci davamo i turni, lavoravamo senza mai interrompere anche tredici ore al giorno ciascuno. Il commendatore veniva a controllare i lavori e ci dava sempre soddisfazione. “Oh ma l’avete già finito!” diceva ogni volta. Il quarantesimo giorno la Dino è partita per il Gran Premio della montagna a Mont Ventoux ed è arrivata prima… la Ferrari, con Ludovico, ha vinto il campionato europeo quell’anno”.
Sorride, felice e un po’ commosso. Gli anni d’oro della Scaglietti, per Oscar sono anche anni di crescita personale.
L’apprendistato si chiude, è ora di puntare avanti e di farlo con sguardo adulto, anche perché il mondo dell’automobile sta cambiando e bisogna stare al passo coi tempi: magari guardando anche oltre.
È così che Oscar sposta momentaneamente le tende e va da Pininfarina.
– È lì che ho fatto gran parte della mia carriera, perché i due “Sergio”, mio padre e Pininfarina, erano d’accordo sul fatto di farmi crescere come figura aziendale.
Da Pininfarina mi avevano messo accanto al direttore generale: avevo una scrivania piccola piccola in un angolo del suo ufficio grandissimo. Curioso, il fatto che la Pininfarina avesse introdotto un piccolo dizionario intitolato “Il lessico della carrozzeria”, così che nell’ambiente tutti parlassero la stessa lingua. Ne ho ancora una copia con me, che conservo con affetto e nostalgia. Ho imparato tantissimo, in quel periodo. Seguivo anche molti corsi di ergonomia, per esempio, come l’operaio doveva muoversi. Stavo spesso a Torino, anche otto giorni di fila per fare i corsi. Ho fatto studi sul lavoro, su come valorizzare il sinistrorso e il destrorso, perché la progettazione e le attrezzature devono tener conto di queste caratteristiche. La lavorazione di una macchina doveva tener conto di chi sta effettuando le saldature e come si sviluppa il lavoro. Si devono considerare i vari ritiri del metallo, perché si possono riscontare difetti di centimetri nelle saldature, a causa dell’ampiezza e dello spessore delle lamiere. Avevamo capito che mettendo a lavorare ai due lati dell’auto un sinistrorso e un destrorso i ritiri delle saldature erano limitati e risultavano simmetrici. Cioè: il ritiro c’era sempre, ma era simmetrico. Abbiamo così iniziato a misurare i ritiri e l’esperienza ci ha portato a fare i pezzi maggiorati in funzione del ritiro, in modo che a fine lavorazione i telai erano perfetti come da disegno.
Oscar racconta. Ripete più volte che “iniziare a girare” è stata la sua fortuna, ne è convinto e mentre lo ascolto mi viene da pensare che questo sia uno dei tanti trait d’union tra ieri e oggi. Sullo sfondo di un mondo che cambia, la miglior strategia consiste senz’altro nel guardarsi intorno, nella disponibilità al cambiamento e nella rinuncia alle comodità della propria zona di comfort. Tra l’esperienza alla Pininfarina e quella alla Fiat Oscar impara diverse cose che vanno dall’organizzazione del lavoro a competenze di diverso tipo.
A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale
Continua a seguire la storia Scaglietti: “Voglio fare una vettura” – Capitolo 3
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