Genio e spregiudicatezza – Capitolo 3

Oscar Scaglietti

Scaglietti, una pagina di storia

Chiedo a Oscar di tornare al tema che non smetterà mai di appassionarmi: l’articolato processo di gestazione che portava alla nascita di un’auto. Il racconto di Oscar traccia il profilo di una storia corale, che ha per protagonista la macchina “in nuce” e che trascina sul palco una miriade di attori.

– Dunque. Torniamo a bomba e continui a raccontarmi come nasceva un’auto. Mi fa un riassunto delle diverse fasi?

– Per sintetizzare, i momenti erano tre: prototipo, omologazione e messa in produzione.

– E più la seguo, più mi viene da pensare che fossero situazioni molto intense, tutte e tre.

– Lo erano. Come la nascita di un bambino. Nel nostro caso, la vettura veniva prima pensata e disegnata su carta, poi veniva creato il modellino. Dallo studio del modellino sul tavolo alla vettura pronta, con la targa in mano al cliente, c’era di mezzo tutto l’arco della sperimentazione.

Che a lui, Oscar, piaceva tanto. Così come i viaggi che lo portavano da una parte all’altra del pianeta. Quando glielo dico, annuisce sorridendo.

 

 

– Quando c’era un salone, in Germania o a Ginevra, o una manifestazione, andavo con qualcuno dei collaboratori… Era giusto che loro vedessero il lavoro che avevano fatto durante l’anno. Volevo che ascoltassero i commenti sul prototipo, che osservassero l’ammirazione della gente ammaliata davanti alla vettura. Era un’occasione per crescere e si impegnavano ancora di più a fare il loro lavoro al meglio. Anche perché dietro, c’ero io che li minacciavo, per scherzo.

– Ah sì, cosa gli diceva?

– Qualcosa del tipo “Ehi, attento che se non fai un buon lavoro poi non vieni con me a Parigi!

– E loro?

– Eh, doveva vederli come si mettevano giù a lavorare di buzzo buono. Il metodo ha sempre funzionato. E poi in fondo devo aver avuto dei buoni modi perché sono tutti colleghi che ancora oggi, nonostante sia in pensione da anni, continuano a chiamare per salutarmi. O con cui ogni tanto mi ritrovo a mangiare fuori.

– Bè, mi dà l’aria di essere stato uno che scherzava anche molto, o sbaglio?

– Sì, è vero. Lavoravo duro, ma ero sempre pronto allo scherzo. Un giorno ho portato in fabbrica una Ferrari 288 GTO prototipo in Pininfarina e ho chiamato Sergio, Fioravanti e tutto lo staff. “Ora vi faccio un bel gioco“, ho detto e sono salito con i piedi sul cofano, poi sul tetto e sul baule. Camminavo avanti e indietro con foga e me la ridevo. Tutti mi guardavano a bocca aperta, pensando che fossi impazzito e mi urlavano: “Ehi! Ma cosa fai, fermati! Scendi di lì, che la rompi!”.

– E lei perché era così tranquillo?

– Perché sapevo di non poterla rovinare: per la costruzione della vettura erano stati utilizzati il kevlar e compositi di carbonio, il che significa che la carrozzeria era più leggera, ma anche molto resistente. Il telaio era ancora in tubolare di ferro, ma con pannellature in composito per togliere le torsioni e le flessioni. È stata una grande novità, davvero.

– A proposito di prototipi, anche La Scaglietti ne ha fatto uno: è stato prodotto?

– La base per il prototipo era una Ferrari 2+2 Spider. Papà aveva scelto lo spider perché è sempre stato la macchina più difficile da produrre, per i problemi di torsione. Questo modello è poi stato il precursore per i progetti futuri, vedi la F50 e la Enzo.

– Come è stato realizzato il prodotto?

– Lo abbiamo fatto in compensato di legno marino, con gli spessori che rispecchiavano i nidi d’ape. Un gruppo di meccanici della Ferrari Esperienza studiava l’impiantistica generale, ossia i passaggi dei tubi della benzina, quelli dell’aria e tutte le parti mobili della meccanica. Non volevamo forare i nidi d’ape per far passare i tubi o i cavi dell’impianto elettrico, perché avremmo indebolito la struttura. Sempre il reparto esperienza mise a disposizione tutta la meccanica di un 2+2. Noi come carrozzeria, invece, abbiamo studiato gli ancoraggi delle strutture metalliche sul telaio di legno.

 

 

– E Sergio ha partecipato al progetto?

– Sì, mio padre ha partecipato in prima persona. E poi c’ero io, che ho seguito la costruzione del telaio di legno, poi la realizzazione del modello per lo stampo e il telaio in composito. Il nostro obiettivo era far nascere il telaio “perfetto” che prevedesse già tutti i suppellettili e tutti gli arredi per la meccanica. È stato un lavoro abbastanza lungo. Prima abbiamo preparato il telaio scala 1:1 e su questa ossatura di legno abbiamo montato tutti gli organi meccanici, i supporti per la sicurezza degli abitacoli, i supporti delle cinture di sicurezza, quelli dei sedili, tutte le cose che poi dovevano nascere sottoposte alle trazioni e agli urti.

– Un lavoro enorme. Chi c’era al vostro fianco?

– Lavoravamo in tre gruppi diversi: carrozzieri, meccanici e omologatori. Abbiamo rivestito il telaio di lastre di ferro di 4 millimetri: esse erano tutte flangiate e scomponibili perché potessimo smontarle dopo aver cotto i compositi. Abbiamo fatto lo stampo femmina sul modello di legno: era abbastanza economico perché dovevamo fare solo uno o due pezzi. Eravamo preoccupati per la dilatazione termica dei giunti di dilatazione, un problema che abbiamo dovuto approfondire e studiare. Con il calore, le dimensioni del modello di ferro aumentavano, noi dovevamo calcolare i ritiri a pezzo freddo. Ammetto che non è stato così immediato. Quello che voglio dire è che tutto quello che abbiamo studiato, scoperto, applicato, migliorato nei corsi degli anni lo ritroviamo nelle vetture moderne. Alcune delle caratteristiche di questo prototipo del 1974/75, le rivediamo proiettati sulla F50.

– Nientemeno!

– Eh sì, l’F50 è stato un capolavoro di ingegneria. Nessuno aveva mai assemblato una vettura con una precisione così, poi l’hanno replicata Bugatti, Pagani, e altri… come con la Ferrari 250 Le Mans, noi siamo stati i primi!

In questo caso, mi rendo conto che per “noi”, Oscar intende la Ferrari. Lo dice con un orgoglio che parla chiaro di come si sia sentito a tutti gli effetti parte dell’azienda.

 

 

– Secondo lei come mai l’F50 è rimasta un po’ nell’ombra e non è divenuta un’icona come l’F40?

– Perché l’F40 è stata la prima auto capace di unire le caratteristiche della macchina stradale con i materiali e la tecnologia dell’auto da corsa. Dal punto di vista costruttivo l’F40 e l’F50, poi, sono completamente diverse. L’F40 aveva la gabbia, la struttura ancora delle vetture del passato, eliminata nell’F50. Dalla prima alla seconda c’è stato un grande salto di tecnologia, che poi ritroviamo sulla Enzo, ma la prima è diventata il sogno di molti. La Ferrari ha fatto la scelta, con tutte e tre, di sfornarne poche vetture, a numero chiuso. Facendone di più avrebbe spinto a fare ricerca, perché solo quando fai più serie si studiano e realizzano i miglioramenti.

– Tornando al vostro prototipo, alla fine è stato messo in produzione o no?

– La Ferrari aveva assegnato a mio padre un collaudatore di lunga esperienza. Partivano a metà settimana e andavano al mare a trovare Afro Gibellini. Facevano tutte le prove, andavano per le strade di montagna, in pianura… abbinavano il collaudo stradale con delle piacevoli visite enogastronomiche. Alla fine è nata una macchina che non era né bella né brutta, ma piuttosto anonima. Non aveva grinta esteticamente parlando, la finalità era lo studio e la funzionalità. Posso dire che era uno spider piacevole che ha girato nell’anonimato, senza onore e senza gloria, e che di chilometri ne ha fatti parecchi.

– Quindi alla fine non siete andati oltre la fase del prototipo…

– Sì, è rimasta un prototipo, ma si è stabilito che con quella tecnologia si poteva fare qualsiasi tipo di vettura spider o berlina, si potevano costruire tutti i pezzi e lavorarli anche a chilometri di distanza, con le tolleranze meccaniche calcolate alla perfezione.

 

 

Ormai ho perso il conto delle ore e non so più da quant’è che siamo qui, a chiacchierare. In filigrana, dietro le parole di Oscar, spesso si profila la figura onnipresente di Sergio (come il figlio continua a chiamarlo). Il padre quasi mai nominato come padre. Ancora una volta, decido di spostare i riflettori su di lui, Oscar per chiudere questo racconto – che è l’epopea di tutta un’epoca – come il “suo” racconto. L’estro, la simpatia, la curiosità attenta e l’amore che emergono da ognuna delle sue parole, meritano di essere messe in luce.

– Di Ferrari, ne ha viste tante. Qual è, per lei, la meno bella?

– Quella che mi è piaciuta di meno è stata la Ferrari Dino GT4, che porta la firma di Bertone: glielo dico proprio senza peli sulla lingua, per me è inguardabile. E non mi è piaciuto neanche “Gobbone”, il 365 GTC4.

– E qual è la Ferrari che vorrebbe avere il garage?

– La Dino! Quella è proprio un bijou: con le sue proporzioni perfette, con le sue forme e la sua bellezza. Però confesso che in garage, ne vorrei ogni giorno una diversa… giusto per restare con i piedi per terra, eh! A me, per esempio, piace tanto il Ferrari California passo lungo: la più proporzionata di tutte, semplice e bellissima.

– E la vorrebbe rossa, naturalmente…

– No, non necessariamente. Era bella anche verde, con l’interno beige in pelle grana fiore. La vorrei anche se la cappotte ogni tanto andava su di traverso e faceva tribolare!

 

 

– Con tutta la sua esperienza la chiameranno per fare il giudice?

– Si accade. Sono stato invitato da Sergio Marchionne per la festa dei settant’anni della Ferrari. Devo confessare che ho premiato una Boano, anche se in concorso c’era una barchetta Scaglietti… ma, quella Boano era originale e “genuina”!

– Complimenti per l’imparzialità, dimostra uno spirito molto onesto.

– Anche a Palm Beach, negli USA, premiai una Vignale a scapito di una Scaglietti. La macchina era appartenuta sempre alla stessa famiglia, da padre in figlio, in quel caso ho premiato la fedeltà.

– Parlando di Stati Uniti, è mai stato a Pebble Beach?

– No, non sono mai stato, mi hanno invitato molte volte, ma in agosto, non posso. Non faccio andare mia moglie a Cesenatico per andate io a Pebble Beach? Non scherziamo!

 

 

– Lei ha un’esperienza ammirevole, Oscar. La ascolterei parlare all’infinito ma è arrivato il momento di salutarci. Mi dica, quindi, con quale aggettivo si definirebbe?

– “Genio e spregiudicatezza”, come spesso mi spremevo le meningi e tiravo fuori delle soluzioni di tutto rispetto per migliorare, così poi ero capace di fare delle cavolate, delle vere e proprie asinate che non erano da me. Me ne rendevo conto solo dopo, a bocce ferme.

 

 

Ciao Oscar!