– Lei era giovane, 27 anni, quando da Bertone disegnò la Lamborghini Miura, non parlo in sé della linea della vettura che lei ritiene inguardabile… eppure il tratto era già audace.
– Fino a un certo punto perché avevo il gusto che derivava dall’automobile sportiva, da corsa, degli anni ’50. Viste oggi non sono bellissime, ma allora per un ragazzo come me, rappresentavano qualcosa di molto avanzato. Con la Lamborghini Miura ero agli inizi del mio lavoro e non avevo un’autonomia tale da poter fare proprio quello che volevo. Mi ero affidato un po’ al gusto della grande macchina sportiva 50/60 e poi dal fatto di fare qualcosa che fosse diverso, ma che, allo stesso tempo, fosse già nell’occhio della gente. Quindi aggressiva, ma con qualche dolcezza, un misto. Il disegno della Miura era un compromesso tra il desiderio di fare qualcosa di nuovo, e qualcosa di diverso, ma di non dispiacere il pubblico.
Quando feci la Countach ci vollero anni prima che fosse totalmente accettata. A qualcuno è piaciuta subito, però alla maggior parte, anche dei giornalisti, ci sono voluti anni. Tanto è vero che è rimasta in produzione per 17 anni.
Marcello Gandini è un uomo riservato e ogni dettaglio che lo riguarda rifugge alla vistosità. L’eleganza lo contraddistingue nei lineamenti e nella gestualità. La sobrietà nella parola. La delicatezza d’animo e la forte personalità rendono il maestro molto carismatico. Alcune delle sue creazioni trasmettono stravaganza, altre grazia e potenza, ma tutte sono delle grandissime ammaliatrici. Sono vetture che strizzano l’occhio alle concorrenti e dichiarano aperta la sfida.
– La Lamborghini Countach catalizza la curiosità, ci si ferma a guardarla ancora oggi… la sua forma è tuttora innovativa
– Ma inizialmente ha avuto delle difficoltà. Invece per me rappresentava il sogno.
– Intende che la Miura era più ruffiana, una linea di transizione, mentre il Countach è la vettura più pura, che la identificava di più?
– Sì esatto, nella Miura quel poco di audacia che c’era era reso accettabile dalla dolcezza, dall’andamento del disegno. Nessuno rifiutò la Miura, ci fu un consenso immediato. Anche di più di quel che meritasse.
– Ho letto in più interviste che lei ritiene la Lamborghini Miura “inguardabile”.
– Per me sì, ma me ne rendevo conto.
– Personalmente trovo la Miura bellissima e il dettaglio delle branchie è il mio preferito.
– Quelle fanno parte di quel tocco di originalità necessario, che bisogna metterci perché sennò non c’è novità. Come le ciglia nei fari, disegnate semplicemente per mascherare il faro della Fiat 850. Per fare i prototipi si utilizzavano prodotti di serie di altre vetture, cercando poi di mimetizzarli il più possibile. C’era un motivo pratico in alcuni casi.
Le prese d’aria ci volevano, potevano essere disegnate diversamente, oppure messe in un altro posto, ma c’era una funzione pratica perché bisognava sostenere il vetro a giorno, senza cornice, e c’era bisogno di una guida in qualche modo.
Anche le griglie con gli esagoni, servivano a diversificare un qualcosa che era già di serie.
– Parliamo di una delle mie vetture preferite: la Marzal.
– La Marzal va vista dal vivo perché cambia moltissimo rispetto alla fotografia. La Lamborghini Marzal doveva andare negli Stati Uniti ma, per motivi doganali, è stata abbandonata alle intemperie stagionali al porto di Genova, per un anno! Una storia disastrosa. L’acquistò un collezionista svizzero, Albert Spiess, che la restaurò esattamente com’era, mantenendo l’originalità del prototipo.
Giampaolo Dallara all’epoca pensava che sarebbe dovuta entrare in produzione. Ancora oggi quando lo incontro lo dice sempre “lo sbaglio della vita della Lamborghini è stato quello di non produrre la Marzal”.
– Troppo futuristica per i tempi? Era il 1967.
– Sì, era un po’ come andare sulla luna, appunto, era fantascientifica.
Quando ho rivisto questa cinquantenne e più, al Concorso d’Eleganza Villa D’Este del 2019, sono rimasto colpito.
– Rapisce l’occhio vederla sfrecciare sulla strada.
– Quello è il concetto che ho sempre avuto: l’automobile ferma è un’altra cosa. Le vetture vanno viste in movimento. Nella mia vita ho fatto una quantità enorme di modelli, di studi, per alcune case produttrici come la Renault o la Volkswagen, e ricordo che tutte le volte, per ciascuno di questi modelli, il giorno che la dovevamo caricare sul camion, anche spinta a mano, faceva subito un’altra impressione: nel bene e a volte anche nel male.
– Il movimento cambia la visuale?
– Il movimento, anche se lentissimo cambia il punto di visuale. Il moto cambia la forma della macchina, contemporaneamente si vedono le parti nascoste e le parti visibili cambiano forma. Si percepisce completamente il volume della vettura, come in un ologramma. Certe volte anche in peggio!
La fotografia di una vettura è ben difficile che dia l’idea della linea, perché è un’immagine fissa e può ingannare. La macchina ha bisogno di essere vista nel suo volume.
– Un discorso valido anche per altri oggetti.
– Sì, assolutamente, anche per una persona. Prendiamo il viso di una donna, non è possibile cogliere dalla staticità di una fotografia alcuni dettagli. Guardando in viso una persona dal vivo, si coglie quello che “non si vede”.
– Adesso inizia ad essermi chiaro il perché lei e Nuccio Bertone, avevate l’ambizione di entrare nei saloni con la vettura in moto.
– Si faceva con le vetture di serie, ma per i prototipi quasi mai, o raramente, perché si arrivava all’ultimo momento. Ma, alla Bertone si è fatto. A me piaceva tantissimo, mi ricordo a Ginevra con la Lamborghini Countach. La vettura era arrivata alla sera prima dell’apertura del salone, adesso non sarebbe più possibile, oggi le norme sono completamente cambiate. Una volta era permesso tutto. Erano circa le 11 di sera e fuori dal Salone di Ginevra c’erano i giornalisti, altri colleghi e i curiosi che lo sapevano e aspettavano… “sta arrivando, sta arrivando”, ma non arrivava mai! Poi finalmente giunse il camion, la vettura scese e qualcuno la mise in moto ed entrò nel salone a passo d’uomo. Con tutta la coda di persone incuriosite… era effettivamente una sensazione bellissima. In quell’occasione fu una vera emozione.
– Per la Marzal la storia è stata diversa. La Lamborghini aveva modificato il motore, avevo chiesto di invertire il senso di rotazione. All’ultimo, quando era stata montata la meccanica, il cambio non funzionava, non entrava nessuna marcia. Eravamo disperati, ricordo che Bob Wallace stremato si mise a piangere. Fu lui che lavorando tutta la notte, riuscì a sistemarlo, ma entrava solo la seconda marcia… per fare l’entrata in scena era sufficiente.
– C’era molta più istintività rispetto ad oggi?
– Adesso i prototipi presentati sono tutti finti, non sono neppure prodotti nei materiali giusti. Talvolta fatti in vetroresina, sono semplicemente dei modelli, perfettamente fatti, ben finiti, ma trovo inutile spendere dei soldi così. Invece una volta erano delle automobili e bisognava che funzionassero.
– È molto critico nei confronti del suo lavoro.
– Sono capace di vedere quando una cosa è brutta, diciamo che ho la mia teoria, se uno è riuscito a fare decentemente metà delle cose che ha fatto è già un bel successo.
– Che cosa è bello? Come definirebbe la bellezza in generale? Non solo riferita a una vettura.
– Personalmente penso che la bellezza sia la possibilità di creare emozioni. Se vedo una vettura e dico “bella”, lo dico tanto per dire qualcosa. In realtà dovrei dire “mi emoziona”, oppure che “stimola certe sensazioni”.
– Bisognerebbe prestare più attenzione alle proprie sensazioni?
– Intendo dire che a volte c’è un’immagine che possiamo assimilare facilmente, che è in sintonia con noi stessi, ma sempre collegata all’emozione. Dove non ci sono emozioni, non c’è niente. È un concetto molto soggettivo, questo è il mio punto di vista. Anche una bella donna, una donna che piace veramente crea immediatamente delle emozioni, a volte indimenticabili. Anche per un paesaggio, penso sia difficile dire bello o brutto in base a delle osservazioni puramente dimensionali. Se crea delle emozioni è sicuramente una cosa bella per chi la vede.
Anche il desiderio di avere delle emozioni ha la sua importanza. Perché, a mio avviso, “noi abbiamo il desiderio di avere delle emozioni”, che spesso non abbiamo o siamo addirittura frustrati. Questo può valere anche per le automobili e diciamo che oggi non provo particolari emozioni, in generale, per la maggior parte delle automobili moderne.
– Per le sue creazioni? Prova emozioni nel rivederle?
– Per certe no, per certe un pochino sì. Per esempio quando ho rivisto la Lamborghini Marzal un anno fa al Concorso d’Eleganza Villa D’Este, effettivamente è stato emozionante. Soprattutto vederla in un contesto normale, sarebbe stato diverso vederla in un salone o in un museo. Lì c’erano altre automobili, c’era gente, l’insieme del contesto molto piacevole, ed è stata fonte di emozione per me.
– In quell’occasione c’erano due Lamborghini Miura – una in concorso e l’altra esposta – la Lamborghini Marzal, la BMW Garmish, intorno aveva più di una sua creazione.
– Mi hanno fatto un’accoglienza che non me lo sarei mai aspettato. BMW aveva organizzato tutto per presentare la BMW Garmish, la concept car presentata nel 1970 al Salone di Ginevra e che poi andò perduta.
– Cosa ha pensato nel ri-vederla?
– Si difende bene ancora oggi, nonostante tutto. Chiaramente l’avevo già vista in costruzione perché andavo a Torino in corso d’opera. È stata riprodotta sulla base delle fotografie, i disegni non ci sono più, in realtà non è rimasto niente del progetto originale.
– Quanto ha influito l’ambiente in cui è cresciuto per il suo talento?
– Sono cresciuto in un ambiente dove mio padre, oltre ad essere un compositore e direttore d’orchestra, frequentava un gruppo di sei artisti chiamati i “Sei di Torino”, dove c’erano, tra gli altri, Felice Casorati e Gigi Chessa… A quel tempo a Torino c’era Riccardo Gualino, l’imprenditore del treno ad alta velocità, il proprietario della SNIA-Viscosa. Un mecenate appassionato di arte e curava il lato artistico della città.
Mio padre era un moderno per l’epoca, parlo in termini musicali, potrei fare una similitudine con Richard Strauss. Era una musica “difficile”, al mio orecchio, che poi ha dato origine alla musica dodecafonica. Sono venuto a nascere in un ambiente di quel genere lì.
– Pensavo che il suo osare, per esempio quando disegnò l’Alfa Romeo Carabo, questa sicurezza nel proporre le proprie idee e di potersi esprimere, venisse anche da tutto un background educativo.
– Può anche darsi. Ci può essere l’influenza delle origini o può essere anche il contrario, quindi una reazione. Ossia il fatto che a casa mia le automobili non erano neanche considerate, automaticamente all’età di cinque anni disegnai un’automobile.
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A cura di International Classic