– Proviamo a sintetizzare i suoi suggerimenti chiave, i segreti, per fare un prototipo: essere in poche persone.
– È indispensabile. Perché sono cose che si fanno più a sensazione che non con grandi riunioni. L’automobile non è una cosa artistica, ma è comunque un’attività della mente… anche della mente inconscia del bambino. Da piccolo sognavo le macchine e c’è qualcosa che mi ha accompagnato negli anni. Personalmente non mi sono mai spaventato nel fare una cosa nuova o diversa, la paura del foglio bianco non l’ho mai avuta, anzi ho sempre amato il foglio bianco. Potrei partire integralmente da zero, meccanica, carrozzeria, metodo di costruzione. Il foglio bianco è stimolante.
– Torniamo al lavoro individuale.
– Ho avuto un certo successo facendo un progettino, relativo alla riduzione della superfice degli stabilimenti per la costruzione di automobili. Lo scopo dello studio era quello di ridurre il numero degli operai, degli orari di lavoro, del costo degli stabilimenti, sia di costruzione che di gestione: in breve vuol dire ridurre le dimensioni.
Ho svolto il tema dello studio in modo non adeguato… nel senso che ho fatto da solo tutta un’automobile, compreso il motore. È stato molto impegnativo e, quindi, ho dovuto lavorare senza troppa autocritica, altrimenti non sarei riuscito a fare nulla.
– Ridurre le dimensioni significa, anche, ridurre l’incidenza dell’inquinamento.
– Per fare tutto ciò bisogna, principalmente, cambiare l’automobile. In certi stabilimenti si cerca, con i robot, di migliorare la produzione e di ridurre i costi… e qualcosa si ottiene. La mia visione era più drastica. L’ambizione del mio progetto era di ridurre tantissimo la dimensione degli stabilimenti. Per costruire un’automobile bisogna: comprare un terreno, costruire uno stabilimento, si deve attrezzare all’interno con tutti gli impianti… poi ci sono i costi di gestione… la somma di tutte le spese deve essere suddivisa per il numero delle automobili prodotte dall’impianto. Se si dimezza lo stabilimento, da subito si dimezzano le spese. L’ho mostrato a diverse case automobilistiche, tra cui la Fiat, allora c’era l’ingegner Ghidella. Quando conclusi con la Renault, il giorno seguente mi telefonò l’ingegnere della Fiat perché era interessato.
– Lavorare da soli, o in poche persone, perché troppe teste possono creare confusione?
– All’epoca della Carabo, ebbi l’ambizione di crearmi un ufficio all’interno della Bertone. Avevo due giovani menti, come collaboratori, che non avevano mai lavorato. Un certo Boscairol, simpatico e molto bravo, sapeva disegnare abbastanza bene, un uomo intelligente che sapeva valutare la situazione. Ho avuto dei rapporti ottimi con i collaboratori, ma bene o male, ho sempre fatto quello che volevo. Chiedevo sempre il punto di vista degli altri, perché importante. Quando abbiamo fatto la Stratòs – avevamo da poco presentato la Countach a Ginevra – non avevamo indicazioni da parte della Lancia così andavo avanti di testa mia. Insieme ai due collaboratori, abbiamo iniziato a fare un prototipo a grandezza naturale… uno dei due aveva fatto anche i disegni e si era basato molto su quello che avevo fatto con la Countach. In questo caso il tema era completamente diverso, ma l’ho lasciato fare perché se uno continua a dire “no”, non si stimola. Quando il modello è stato abbozzato, non era proprio quello che avrei voluto, ma sono certo che se ne siano resi conto anche loro.
– Avevamo l’impegno di presentare l’auto al Salone di Torino, ad agosto andarono tutti in vacanza mentre restammo io e tre modellatori, i migliori che avevo. Ogni tanto andavo a farmi un giro con la Guzzi… in ogni caso in tre settimane abbiamo realizzato la Stratòs senza disegni, non sono mai esistiti. Tratteggiavo i pezzi che venivano ritagliati direttamente dal compensato. Al ritorno dalle ferie vennero tutti quelli della Lancia a vedere la macchina, che aveva una sola spennellata di ducatone e dei cartoni al posto dei vetri… chiaramente non era il massimo e questi avevano dei musi lunghi. Personalmente non ero preoccupato perché sapevo benissimo come sarebbe venuta. Quando abbiamo presentato il prototipo… i musi lunghi sono diventati dei sorrisi. La macchina da rally non aveva bisogno di essere bella, ma se non avesse vinto sarebbe rimasto almeno il bello !
– Fare ciò che piace e farlo in fretta e senza dubbi.
– Certo, è molto importante. Bisogna superare i dubbi a costo di fare qualcosa che non è esattamente quello che si vorrebbe. Faccio un esempio: per la Marzal, ho dovuto utilizzare un motore della Lamborghini Miura girato al contrario e tagliato a metà. Il mio progetto prevedeva di invertire il senso di rotazione senza sapere, in anticipo, se qualcuno me lo avrebbe fatto. Abbiamo fatto la macchina e poi la Lamborghini, sempre bravi e gentili gli ingegneri Stanzani e Dallara, sono stati ben contenti di farlo. Voglio dire, ho iniziato a disegnare qualcosa mettiamo a ottobre, poi bisognava fare il modello, la costruzione, tutto il prototipo che era complicato per arrivare a Ginevra ai primi di marzo. Non erano possibili dei ripensamenti e tutto sommato è una fortuna perché se ci avessi pensato un po’ troppo, non l’avrei fatto o non l’avrei fatto così… magari meglio o, forse, peggio.
– Senza ascoltare gli altri e senza farsi condizionare.
– Non avevo delle idee di partenza. Ho una mentalità, ho un bagaglio che mi sono fatto fin dalla nascita. Ho delle sensazioni e qualche volta bisogna indovinare il canale utopistico.
– Del pubblico intende.
– Sì, quello a cui mira nei suoi desideri più folli… non sempre accade, sono state fatte anche delle brutte cose.
– Fin da subito lei ci è riuscito benissimo a indovinare il canale, era un giovane osservatore e molto sensibile, infatti Nuccio Bertone la volle con lui.
– Bertone aveva visto i miei disegni e voleva assumermi subito, ma se fossi arrivato io Giugiaro se ne sarebbe andato… se ne andò comunque, ma due o tre anni dopo, di sua spontanea volontà.
Dopo il nostro primo colloquio, Bertone aveva promesso di assumermi… passò un po’ di tempo e non sentii più nessuno. Lo chiamai e l’impiegata m’inventò una scusa. A quel tempo, avevo l’abitudine con un mio amico che il giorno di San Giuseppe si andava in Liguria a fare il bagno. Eravamo a Capo Mimosa, parcheggiammo in riva al mare, organizzati con la nostra tendina. Erano trascorsi alcuni mesi dall’incontro con Nuccio e combinazione chi mi vedo? Bertone con la sua futura moglie. Io ero sul cofano della Simca Chambord Vedette a prendere il sole. Si avvicinò e mi fece mille scuse. Mi confessò che era stato un po’ condizionato da Giugiaro.
– C’è un progetto che l’ha soddisfatta più degli altri?
– Il progetto acquistato dal signor Tata. È stato un lavoro molto divertente.
Lui in persona è venuto qua a casa, lo avevo già incontrato in India. Mi aveva ricevuto a Mombay sul tardi nel suo ufficio, per cinque minuti… in così poco tempo aveva capito tutto del mio studio ed era entusiasta. Mi ha mandato subito il suo direttore generale per chiedere i preventivi e da lì abbiamo fatto diversi prototipi con l’idea che avevo sviluppato.
La presentazione di uno dei prototipi avvenne proprio in questo giardino. La vettura era completamente smontata e in un quarto d’ora l’abbiamo montata a mano, con due o tre operai… abbiamo anche fatto un giro nel prato… c’è anche un’altra occasione in cui ho avuto un successo personale che mi è piaciuto da pazzi.
– Ci racconti.
– Mi recai in Giappone presso una casa automobilistica per un progetto. Nel 1966, trent’anni prima di questo incontro, avevo fatto uno studio per una casa costruttrice giapponese ed avevo collaborato con un dipendente di quell’azienda. A distanza di trent’anni, questo signore nipponico, in pensione, venne a sue spese da Hiroshima a dove avevo il mio appuntamento. Un gesto che mi ha commosso. Si ricordava della bella collaborazione che avevamo avuto insieme trent’anni prima. A volte si hanno delle soddisfazioni che apparentemente potrebbero non sembrare un granché e invece hanno una grandissima importanza nella propria vita.
Questa giornata è perfetta, non solo perché ho conosciuto il mio mito, il Maestro del Designer italiano. Abbiamo trascorso una piacevole mattinata autunnale conversando tra conoscenti, senza alcun scopo, per il piacere di confrontarci tra curiosità, racconti e riflessioni. L’incontro con Marcello Gandini è stato per me una lezione di vita che ha come priorità il rispetto nel prossimo e di umanità come virtù, come atteggiamento e disponibilità verso gli altri. La potenza dell’umiltà come capacità di aprirsi al mondo per restare senza fiato dallo stupore che si nasconde tra le cose più semplici.
– Il futuro dell’auto quale sarà? Numerosi i cambiamenti che dovremo affrontare, clima, inquinamento.
– L’auto elettrica lo sarà senz’altro… per l’idrogeno, non ho mai avuto simpatia. Guidai per la prima volta un’auto a idrogeno in Giappone. Quando guardai sotto c’era un bicchiere di raccolta dell’acqua, espulsa dopo aver formato energia elettrica, partendo dall’idrogeno e dall’ossigeno, la bevvi e il pubblico mi applaudì. Fu il mio modo per dimostrare che avevo capito.
– L’auto elettrica sarà la soluzione?
– Il Centro Stile Renault, molti anni fa, mi interpellò in merito all’auto elettrica per sapere quale fosse la mia visione ed io come uno stupido risposi “il problema è che le batterie di oggi non consentono autonomie decenti, però il problema principale è legislativo: se un domani fosse vietato l’uso della macchina in città, l’auto elettrica si diffonderebbe subito. La gente si adatterebbe a ricaricare anche ogni 100 chilometri… sono sempre stato troppo sincero!
– Ha mai avuto la tentazione di mettere un motore nel salotto?
– No, ho avuto molte tentazioni di crearne uno tutto mio!
– Ha regalato il Meccano ai suoi nipoti?
– Non fanno più il Meccano in ferro con gli ingranaggi, quantomeno, non lo abbiamo ancora trovato. Vogliamo regalarlo a Pietro, nostro nipote che è pochissimo tecnologico, ma è molto manuale.
– Lei è sempre molto modesto, anche quando dice che “mi sono accorto dopo 50 anni di aver avuto una carriera”
– Sì esatto, mi dicevo “ma come, è tutto qui”?
Un ringraziamento speciale al fotografo Angelo Rosa, che ha reso possibile questo incontro. Alla cordiale ospitalità della famiglia Gandini, Marcello e Claudia. Un grazie anche a Laura, a Francesca e alla infinita pazienza di Sabina.
A cura di International Classic