Danilo Tavoni, Battilastra – Capitolo 2

foto moto Mondial

Il domatore di lamiera

E’ lì che negli anni, Tavoni aveva imparato il proprio mestiere fino a diventare uno dei migliori battilastra in circolazione. Il piccolo Fumana si era guadagnato un nuovo nomignolo – “Mani d’oro” e a dargli il soprannome era stato Stanguellini in persona.
– Io ho un fratello che lavorava in officina ma non ha mai fatto il battilastra. Quando mi vedeva battere la lamiera e farla diventare lucida lucida, lui diventava matto… il mio lavoro non l’ha mai capito. Facevamo di quelle discussioni…! Per la lamiera ci vuole l’occhio e ci vuole la mano: io avevo tutte e due, mentre lui aveva più che altro la mano. Vede, quando si martella uno pensa che picchio e che sto schiacciando delle noci, invece mentre picchio io sono concentratissimo: con la mente e con l’occhio. Ho un occhio esagerato e sa perché? Da Stanguellini, noi facevamo le macchine col filo a piombo e la squadra. Ci avevano abituati ad avere un occhio infallibile, perché Stanguellini veniva tutti i giorni al reparto corse, a vedere come lavoravamo. A lui bastava un’occhiata per vedere se c’era qualcosa che non andava. Poi i tempi sono cambiati: ora ci sono le macchine. Per quelli che facevano questo lavoro, l’occhio era una qualità sacra.
Tanto che, aggiungerei io, l’occhio allenato cambiava anche le capacità della mano. Che iniziava a sentire e a vedere. Tavoni me lo spiega brandendo un tubo alto quanto lui.

 

 

Lo sa come si piegano i tubi? Ora le faccio vedere. Si riempiono di sabbia. Quelli di ottone delle macchine da corsa, Maserati e Ferrari, io però li riempivo di pece. Li piegavo senza scaldarli e poi, quando li mettevo sotto alla fiamma, la pece colava fuori come cera. A piegare i tubi, io ero bravissimo. Pensi che una volta, un cliente a cui avevo piegato un tubo, ha voluto addirittura che glielo firmassi tanto era fatto bene: dove c’era la curva, il tubo era più rotondo di dove non c’era!
– E come faceva a piegarlo? Tutto a occhio?
– Lo sentivo con le mani. Ognuno ha il suo metodo. C’è gente che per piegarlo lo fa diventare del tutto incandescente. A me basta che raggiunga una certa temperatura interna, così sento la sabbia che si muove. E’ tutta questione di mano. Mia moglie, per esempio, è bravissima a piegare i tubi.
– Sua moglie? Lavora con lei?
Tra le foto dell’officina, ho adocchiato subito l’immagine di una bella donna dai tratti asiatici. Tavoni scuote la testa.

 

 

– No no, lei lavora in un’azienda alimentare. Si figuri che fanno 400 vaschette di mortadella al giorno! A volte, poi, viene qui a darmi una mano. E’ brava. Sa, a piegare i tubi non ci vuole forza: ci vuole sensibilità.
Stanguellini, d’altra parte, da questo punto di vista deve essere stata una vera nave scuola dove l’occhio e la mano erano tenuti costantemente sotto allenamento stretto. Gli artigiani spesso e volentieri facevano anche gli attrezzi, di proprio pugno. Mentre lo racconta, Tavoni sorride. Era un altro mondo, quello: un mondo che non dava nulla per scontato. Ti serviva un martello? Te lo facevi. Idem per gli scalpelli o per le balestre da raddrizzare. Si modellava, si saldava e si temprava il prodotto finito, nei modi apparentemente più assurdi. Con l’urina, per esempio, che in effetti è anche e soprattutto acqua salata: una combinazione chimica eccellente e sempre a portata di mano, utilissima per temprare (cioè, per indurire) il ferro. Tavoni racconta di quando il capo gli chiedeva di passare tra le file dei colleghi con una scodella, per chiedere se qualcuno – puta caso – doveva fare pipì. E questo era il meno.

Tra i materiali usati per temprare gli strumenti di lavoro, c’era anche il cianuro. “Si faceva così: si scaldava il pezzo da indurire, io – con le mani nella scatola – prendevo su il cianuro, lo mettevo sul pezzo incandescente e lo scaldavo ancora, così la polvere penetrava dentro il materiale.” Cose dell’altro mondo, che oggi come oggi farebbero impallidire un ispettore ASL… ma si sa, il lavoro è figlio del suo tempo e all’epoca, cose come la legge 626 erano fantascienza allo stato puro. Figuriamoci poi che problemi poteva farsi un ragazzino minuto, con le mani d’oro e una passione smisurata addosso. Uno che spesso, tra un lavoro e l’altro, finiva per dar forma anche a cose, che con il lavoro non c’entravano niente. “Lo vede questo pugnale? L’ho fatto con un pezzo di motore, l’asta che fa aprire e chiudere le valvole. Niente, mi è venuto in mano questo pezzo di ferro, ho iniziato a scaldarlo e batterlo ed è venuto fuori un pugnale. Ero un ragazzo di 13/14 anni. Come andavano a mangiare ed erano tutti via, io andavo a comperare un panino e dopo 10 minuti ero già lì che lavoravo. C’erano dei giorni in cui non mangiavo neanche per saldare!”

 

 

La stagione da Stanguellini era stata lunga: Tavoni era entrato che era poco più che un bambino e ne era uscito uomo fatto: con una professionalità a tutta prova e delle proverbiali “mani d’oro”. Il passaggio successivo era stato da Lamborghini. Con lo spostamento degli stabilimenti, Tavoni – come tanti altri – aveva deciso di levare le tende. Ed era sbarcato in un mondo completamente nuovo, che con le macchine non aveva niente a che vedere: quello delle cucine, dove la differenza non stava solo nel prodotto ma anche nelle modalità di produzione. Industriali, appunto.
– Facevamo 25 mila cucine al mese. Io ero il capo officine… il che significa che prendevo solo delle sgridate e basta. Sotto di me c’erano 150 donne che stampavano la lamiera. Ogni mestiere, ogni settore, ha il suo lato interessante. Lì ho imparato cose che per me erano oscure. Le guardavo e mi dicevo: ma come… qui in dieci minuti si fanno 100 pezzi?
– Dica la verità, curiosità a parte, il mondo delle auto le mancava e non vedeva l’ora di andare in pensione per riprendere.
– Mah, la pensione: la verità è che io non ho mai pensato di andare in pensione. Poi un bel giorno un mio amico mi ha detto: “Speta bein, guarda che tu sei già in regola!” Avevo 51 anni, 30 anni fa quindi. D’altra parte ho iniziato presto. Eravamo bambini, in realtà non potevamo neanche lavorare: quando arrivavano i controlli ci nascondevamo.
– Così è andato in pensione. E di fatto ha continuato a lavorare.
– Ho continuato a fare lavori col rame… E ho fatto molte marmitte: tutti infatti mi conoscono come “quello delle marmitte”. E’ iniziato ad arrivare uno e a dirmi: mi fai una marmitta? Perché le moto giapponesi, come le macchine, facevano le marmitte di carta. Se uno gira poco e fa molti avviamenti, la marmitta si buca subito. Allora ho cominciato a fare marmitte per le moto giapponesi.

 

 

A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale
Fotografie: Tommaso Ferrari per International Classic © 2017

 

Continua a seguire la storia Danilo Tavoni, Battilastra – Capitolo 3
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