Il domatore di lamiera
“La lamiera va domata come un cavallo selvaggio. Va domata con le mani, con l’occhio, con l’esperienza… perché se da una parte cresce, dall’altra deve diminuire”
Danilo Tavoni è un omino piccolo e minuto e proprio non si sa dove la prenda, tutta la forza che ha in corpo. All’alba degli 81 anni, per di più. La prima cosa che gli vedo fare è un parafango e mi bastano due minuti per capire che ha ragione: la materia è cosa viva, che va domata, tenuta per le briglie e condotta all’interno del recinto della Forma.
Peraltro, discorsi a parte, anche l’officina di Danilo Tavoni riflette in pieno questo leitmotiv. Lo scenario è una vera e propria fucina in cui ogni cosa trasuda fermento. Fermento inteso come “magma”, con tutta la sua immensa portata di energia creativa. Nell’officina in cui Danilo saltella ovunque, muovendosi con l’agilità di un folletto, per un profano è difficile orientarsi tra serbatoi, parafanghi e strumenti di lavoro. Tra cui spuntano anche cimeli e ricordi. Un po’ fucina, un po’ museo, l’officina di Danilo è una cage aux folles in cui passato e presente si mescolano e rimescolano senza soluzione di continuità.
“Lo vede questo? Sa cos’è? Un frustino, di quelli che si usavano con i cavalli” racconta Tavoni sventolandomi sotto il naso un arnese vecchissimo, che sembra uscito da un museo. Del padre, parla spesso e volentieri e proprio come nella sua officina, anche nei suoi discorsi passato e presente tendono a marciare di pari passo, molto spesso a braccetto. “Guardi qui, questo bambino ero io”.
Sotto gli occhi, mi sfila una foto di famiglia dei tempi che furono: un bel bianco e nero con madre e figli che guardano, serissimi, verso l’obiettivo. I figli, sono davvero tanti. “Eravamo in dieci fratelli, a casa” mi racconta Danilo “Metà era come mio papà, metà come mia madre, che era piccolina. Ecco, io facevo parte della seconda metà. Quando sono nato io, si vede che si mangiava solo radicchio. Sa come mi chiamavano? Fumana! La fumana, da noi, è la nebbiolina: quella bassa, che c’è la mattina quando ci si alza… la fumaneina, come la chiamiamo noi.”
Ride, poi inizia a snocciolarmi una storia antica, scandita dalla bellezza prosaica di tanti piccoli colpi di scena.
– Quando sono nato io, il mio babbo era in Africa. Faceva le strade. E’ tornato con un pacco di foto così… tante, sa? Sono durate anni, poi sono andate tutte perse: mia moglie le dava alle mie figlie per tenerle buone, quando erano piccoline. In Africa, mio padre ci è rimasto due anni. Quando è tornato, con un po’ di soldi che aveva messo da parte ha comperato un cavallo per il suo babbo, mio nonno. Che lavoro faceva? Mah, anche il carpentiere… ma aveva una manualità fuori dal comune: di cose, ne faceva parecchie. Per esempio le gabbie per i colombi o per i conigli. Quando avevamo finito di cenare (quando c’era da mangiare, mica sempre!), dovevamo sgomberare tutto. Mio padre metteva sul tavolo i sacchi e i pialletti e mentre noi tenevamo stretto l’asse, lui piallava.
– Era anche falegname, quindi. E in tutto questo, i cavalli cosa c’entravano? Prima mi ha fatto vedere il frustino…
– Eh, i cavalli… mio padre aveva la passione per i cavalli! La gente andava da lui per farli curare. Quando qualcuno comprava un cavallo, glielo portava subito. E sa cosa faceva, lui? Prendeva un carro, gli legava le ruote in modo da non farle muovere e poi montava su e iniziava a spingere, finché al cavallo veniva la schiuma alla bocca. Insomma, lo testava per capire se era un cavallo bolso.
– Bolso?
– Sì, come quando uno fuma un pacchetto di sigarette al giorno e poi, la mattina non ha fiato. Per i cavalli è uguale. Lui li metteva alla prova e quando non stavano bene, si dava da fare con delle miscele. Oltre alla passione per i cavalli, poi, mio padre aveva quella per i colombi viaggiatori. Avevamo la colombaia che era una cosa…! Doveva vederlo, come si arrabbiava quando pensava che tra dieci figli che gli erano capitati, non ne era venuto fuori nemmeno uno con la passione per i colombi.
E’ proprio trotterellando a fianco di quel papà estroso e concreto al tempo stesso, che il piccolo Danilo – alias Fumana – aveva iniziato a sviluppare la straordinaria manualità che lo avrebbe contraddistinto negli anni. D’altra parte, talis pater, talis filius. La passione per la materia era iniziata a dieci anni, quando Danilo aveva iniziato a lavorare il legno. Lui, però, sognava di fare il pilota: il mondo delle automobili, lo aveva sempre affascinato… tanto che alla fine – vuoi per destino, vuoi per casualità – aveva finito per incapparci comunque. Da Stanguellini.
A cura di International Classic, scritto da Martina Fragale
Fotografie: Tommaso Ferrari per International Classic © 2017
Continua a seguire la storia Danilo Tavoni, Battilastra – Capitolo 2
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